Quando iniziò a circolare il termine ‘privacy’ tra noi comuni mortali, era in frasi tipo “ehi, non aprire la porta del bagno! avrò diritto alla mia privacy!” e “per rispettarne la privacy ometteremo il nome del titolare del ristorante che ha mandato 20 persone in ospedale ieri sera per intossicazione”. Ci sembrava uno dei tanti nomi inglesi cool per dire una cosa che avremmo potuto benissimo dire in italiano, ma tant’è.

Poi arrivarono i “termini della privacy” a cui abbiamo sempre aderito tutti: un link su cui nessuno cliccava che nascondeva cose importantissime quanto noiose. Ci è sembrata la piccola tassa da pagare per avere cose bellissime più o meno gratis e ci andava bene così.

Un bel giorno ne hanno iniziato a parlare i giornali con varie diatribe in proposito, ma più che un invito ad approfondire cosa stava succedendo ai nostri diritti è stato un sollievo poter pensare “ah, ottimo! che se ne occupino loro che ne capiscono e che decidano per il nostro bene”.

Il nostro bene

Ecco io quei termini della privacy ad un certo punto me li sono andata a leggere, perchè avevo intuito che qualcosa non stava andando per il verso giusto.

Quando sono entrata in internet, più di 20 anni fa, in chat si usava un nick, al fornitore della tua casella email potevi dare dati fittizi e ovviamente la tua email era zorrointhesky@mail.it e non certo nome.cognome@mail.it. Solo chi ti conosceva già nella realtà, sapeva chi eri su internet, per tutti gli altri l’anonimato era una legge, uno stile di vita, l’unico modo possibile di intendere internet.

E no, l’uso principale dell’anonimato non era insultare gli sconosciuti, ma presentarsi agli altri per i propri pensieri, con le proprie azioni e non con un’identità già prestabilita dalle norme sociali che vigevano nella società reale.
L’aspetto fisico non contava (e mettere online una foto richiedeva così tanto tempo che scambiarsi le proprie foto era escluso o considerato un dono preziosissimo!), lo status non contava, l’autorevolezza era una questione di competenza. Era un mondo parallelo e aveva le sue regole. Ci piaceva così.

Patente e libretto, per favore

Quando arrivò fb chiedendo nome e cognome, io mi misi (ingenuamente) a ridere. Nessuno degli amici con cui condividevo la passione per internet e l’informatica avrebbe mai dato il proprio nome ad un social, pensavo. La riservatezza, o privacy, era quanto di più prezioso ci appartenesse, era proteggersi, era la nostra identità: non l’avremmo consegnata gratis a nessuno.

Invece la vanità, l’ansia di esserci, di non perdersi nemmeno un contatto, ebbero la meglio. E vennero consegnati milioni di nomi e cognomi, abbinati a:

  • gusti: questo mi piace, questo non mi piace, questo mi piace abbastanza da cliccarci su e approfondire, questo lo scorro velocemente, mi interessano i locali dove andare a bere, lo sport, le ragazze;
  • comportamenti: mi collego a quest’ora, passo sul social questo tempo, scorro solo la bacheca, leggo solo i post di amici, leggo tutti i gruppi a cui sono iscritto;
  • interazioni: chatto sempre con gli stessi amici, mando un saluto a tutti, chatto contemporaneamente con più persone, chatto solo con una persona tutti i giorni, chiedo l’amicizia a molte persone, rifiuto le richieste di tutti;
  • contatti: ho in maggioranza contatti femminili/maschili; i miei amici sono tutti italiani, hanno tutti la mia età, sono tutti della mia città, ecc.

Tutto quello che potevamo comunicare alle aziende, l’abbiamo comunicato.
Gratis.

Il valore delle informazioni su di te

Ti sei mai chiesto quanto vale sapere i tuoi gusti? Per esempio, perchè i supermercati ti ‘offrono’ (sarebbe meglio dire ‘ti chiedono’) la tessera fedeltà se per loro vuol dire solo farti un sacco di sconti? Sono generosi? Ti vogliono bene? Gli sconti sono semplicemente un modo per tenerti come cliente?
La verità è in cambio degli sconti, al pari della gratuità dei social, loro ottengono una cosa di valore inestimabile: dati per la profilazione del cliente.

Sapere quante più informazioni possibili su un cliente non è una strana forma di voyerismo è LA chiave per vendere.

Esempio banale:
Sono un panettiere, di un quartiere centrale e molto ricco di una città di provincia, so che amano le baguette perchè fa molto Parigi, inizio a vendere le baguette. Le comprano, ho fatto centro.

Esempio più sofisticato:
Vendo fuoristrada, che sono un articolo amato soprattutto da un certo tipo di uomini, che magari amano anche gli sport estremi, le situazioni adrenaliniche, ecc. Far passare un mio spot in tv mi costa centinaia di migliaia di euro per pochi secondi, quindi non posso sparare nel mucchio. Scelgo un canale monotematico, tipo Discovery channel, che per i temi toccati già mi seleziona lo spettatore a casa e passo la mia pubblicità solo lì.

Esempio sofisticato 2:
Allo stesso modo vengono create alcune riviste monotematiche di arredamento, per esempio, quelle più divulgative e meno tecniche. La singola rivista costa sui 5€, ma in abbonamento, ovvero la forma di fidelizzazione più esplicita, 12 numeri costano sui 20€. Perchè? Perchè sono riviste basate interamente sulla pubblicità e le aziende sponsorizzate pagano la testata editoriale sul numero degli abbonati e non sulle copie vendute.

Se un’azienda dovesse prendere un campione di persone, organizzare un’indagine, scremare le informazioni false, ricompensare le persone per il tempo e per le informazioni, costerebbe molto di più. Immagina se fossi una multinazionale e dovessi farlo su più paesi…

Se aggiungi che nei termini della privacy di fb (e quindi anche instagram e whatsapp che sono della stessa proprietà) si dice che tutte le fotografie postate sul social diventano di proprietà anche di fb (cioè, semplificando, se vogliono usare la foto di tuo figlio per una pubblicità possono farlo), direi che la tua esperienza online non è proprio gratis gratis come sembra.
Dico fb, ma lo stesso discorso vale anche per gli altri social e per tutte le applicazioni o le aziende a cui diamo i nostri dati (il famoso “comunicazione dati a terzi”).

Che male c’è

La favola che ci raccontano è che noi diamo questi dati per ricevere un servizio migliore, su misura.

La verità è che, dato che da cittadini siamo diventati consumatori (e su questo punto si potrebbe aprire un lungo discorso), il controllo nella società occidentale non è più perpetrato da leggi restrittive e stato di polizia, ma dalla desiderabilità delle merci.
Ovvero: intuisco cosa ti renderebbe appagato a livello superficiale, te lo propongo in maniera più o meno subliminale, tu acquisti, entri in un circolo economico di dipendenza (compri il cellulare, rinunci ad un’altra esperienza meno materialistica e meno cool, aspetti che esca la prossima versione per essere sempre aggiornato) = ti ho in pugno.

Come salvarsi

Ricorda che tutto ciò che viene pubblicato online, non importa con quali leggi sulla privacy, è comunque di dominio pubblico (addetti ai lavori, falle di sicurezza più o meno temporanee, fantomatici attacchi hacker, ecc). Se pubblichi, consegni alla comunità, per sempre (con il rischio di adescatori, pedofili, ecc).
Io poi sono contraria a pubblicare foto di minori (anche su whatsapp, anche nella foto profilo, entrambi non hanno nessuna restrizione pubblica) perchè non ha avuto la possibilità di dire la sua sulla sua identità, non ha avuto scelta se consegnare un pezzo di sè al pubblico o no.

E’ ovvio che non si può vivere in paranoia e che su qualche punto si deve pur cedere, ma puoi ancora scegliere se e a chi dare i tuoi dati.

Quegli sconti al supermercato sono davvero indispensabili? Essere su quel social con la tua vita privata ti serve o lo fai per conformismo? Il cap alla commessa che te lo chiede alla cassa lo dai solo per essere cortese?